Il filo che unisce tradizione e futuro. Intervista con Gian Domenico Auricchio

Il filo che unisce tradizione e futuro. Intervista con Gian Domenico Auricchio

La qualità, un filo che unisce tradizione e futuro. Intervista a Gian Domenico Auricchio

Intervista a cura di Mauro Meda e Andrea Crocioni, pubblicata su formaFuturi n. 13

La Gennaro Auricchio SpA rappresenta un’eccellenza italiana con alle spalle 145 anni di storia. Una realtà industriale capace di farsi apprezzare in tutto il mondo per la qualità dei suoi prodotti. In questa conversazione con Gian Domenico Auricchio, AD dell’azienda, abbiamo parlato di passato, di presente, ma soprattutto di futuro e abbiamo provato anche a farci svelare il “segreto” di questa famiglia di imprenditori da ormai cinque generazioni

«Io sono un imprenditore, appartengo a una famiglia di imprenditori, rappresentiamo la quarta generazione alla guida di un’azienda che ha alle spalle 145 anni storia e che sta iniziando oggi a coinvolgere la quinta generazione». Ha voluto presentarsi con queste parole, ancor prima di iniziare la nostra intervista, Gian Domenico Auricchio, Amministratore Delegato della Gennaro Auricchio SpA. Parliamo di un’impresa che ha praticamente attraversato la storia del nostro Paese dall’Unità a oggi portando sul mercato prodotti caseari da sempre riconosciuti come sinonimo di eccellenza e di Made in Italy. Dietro alle vicende del provolone più buono del mondo c’è il “Segreto di don Gennaro”, che fonda la sua azienda nel 1877 a San Giuseppe Vesuviano, vicino a Napoli. Un successo, quello dell’azienda, che ha origine da un’intuizione. «Quella del giovane Auricchio venuto dalla Campania a combattere al Nord durante la Terza Guerra di Indipendenza. Questa esperienza gli ha consentito di conoscere il bacino del latte fra Cremona, Brescia e Verona. Da lì è cominciato tutto…», ci racconta con una punta di orgoglio Gian Domenico Auricchio.

La Gennaro Auricchio SpA è un’azienda leader nel settore caseario con una grande tradizione. Rappresentate un’eccellenza italiana capace di conquistare il mondo. Qual è il fil rouge che lega una storia importante come la vostra al presente e vi proietta nel futuro?

Non ho dubbi, il fil rouge è la qualità. Da sempre è un’ossessione della nostra famiglia. Le nostre provole sono sin dall’origine fatte a mano e non è un caso che proprio le mani siano al centro della nostra ultima campagna di comunicazione. Nel tempo abbiamo proseguito su questa strada perché il “fatto a mano” garantisce l’alta qualità dei nostri prodotti. Avremmo potuto risparmiare sul personale, ma non c’è ancora una macchina che ci soddisfi come le mani del casaro nell’acqua bollente!
Questa ossessione per la qualità l’abbiamo applicata anche alle acquisizioni che abbiamo fatto sul mercato. Dai primi anni ’90 a oggi abbiamo rilevato 11 aziende del settore, ben 9 sono state prese fra il 2010 e il 2020, in Italia, ma anche all’estero. Questa politica di acquisizioni nasce dalla volontà di integrare il nostro portafoglio di prodotti che per decenni è stato costituito dal provolone in tutte le sue sfumature. Così abbiamo iniziato l’ampliamento della nostra gamma dai pecorini in Sardegna per poi ampliare la nostra produzione ad altre referenze. Ma la cosa che ci ha guidati in questo percorso è la ricerca dell’eccellenza. Il marchio è importante, ma non si può mai prescindere dalla qualità dei prodotti.

Come state affrontando le sfide che ci sta mettendo di fronte uno scenario globale altamente complesso come quello attuale?

Lo facciamo da sempre come una famiglia. Per noi l’azienda è una famiglia. Io sono entrato qui che ancora non ero laureato e fino a qualche anno fa conoscevo il nome di quasi tutti i dipendenti… oggi sono più di 750 e non è così semplice ricordarseli tutti! Noi crediamo profondamente nel legame fra le persone. È la nostra forza. Nella nostra lunga storia, tante volte abbiamo assunto i figli dei nostri bravi dipendenti, che fossero operai, impiegati o dirigenti. Questa cosa l’abbiamo sempre vissuta come un fattore di competitività. Abbiamo avuto famiglie intere che hanno lavorato con noi. Fatta questa premessa doverosa, è indubbio che in questi anni il livello di complessità del mercato sia cresciuta. Una volta un imprenditore che aveva un’idea o un prodotto di successo poteva vivere di rendita per un po’ di anni. Oggi questo non è più possibile. Da qui la necessità di coinvolgere dei collaboratori presi da fuori, con un alto livello di formazione. Una formazione che è importante a tutti i livelli dell’azienda e che deve essere continua. Noi ci crediamo, investiamo su questo fronte e incentiviamo i nostri collaboratori a tenersi aggiornati. Tale aspetto è indispensabile proprio per riuscire a gestire questa complessità. I nostri quasi 150 anni di storia sono importanti, ma solo se hai la capacità di continuare a essere competitivo e presente nel futuro, altrimenti rappresentano solo un bell’ornamento. Siamo diventati una realtà articolata, abbiamo tanti dipendenti, un fatturato consolidato di 350 milioni di euro, abbiamo 9 stabilimenti in Italia e due all’estero: per quanto grande e brava una famiglia possa essere non ce la può fare da sola. Servono collaboratori che troviamo in azienda o sul mercato. Si tratta di persone che affiancano la famiglia, in un rapporto che non è gerarchico, ma che definirei funzionale. Con i nostri dirigenti c’è un rapporto fluido ed amicale. Il ricorso a manager preparati è un dovere di qualsiasi imprenditore: un precetto che noi cerchiamo di seguire.

Lei crede nel ruolo sociale di chi fa impresa?
Assolutamente. Quando hai più di 750 persone alle tue dipendenze… praticamente devi gestire un paese. E dietro ogni collaboratore c’è una famiglia che dipende dalle decisioni dell’imprenditore. La proprietà di una quota di un’azienda non può essere vissuta come il possesso della casa al mare casa al mare! Implica una responsabilità importante.

Quali sono gli asset per rendere competitiva l’impresa italiana nel mondo?

La nostra azienda esporta almeno dal 1901, quindi possiamo dire di avere questa attitudine nel DNA. Per esportare, torno a ripetermi, credo che l’elemento chiave sia avere un prodotto di qualità. Però questo non è sufficiente. Serve anche la continuità. La qualità deve diventare uno standard. I mercati esteri premiano la costanza. Da decenni abbiamo clienti che comprano con soddisfazione i nostri prodotti in svariate parti del mondo perché ci riconoscono questa serietà. Questo significa dover dire anche qualche no, per essere coerenti e non tradire la propria missione.

Uno dei freni al Made in Italy è la contraffazione che spesso penalizza le nostre produzioni…

L’Italian Sounding nel settore alimentare è un fenomeno noto. Noi stessi abbiamo subito decine di contraffazioni sia in Italia sia all’estero. Non sempre è possibile difendersi. Però io la voglio vedere in positivo: la contraffazione è un segno del valore del prodotto che viene contraffatto. Nessuno cerca di imitare un prodotto scadente. Ma ci tengo a dire una cosa: il grande danno che ci fanno la contraffazione e l’agropirateria non è solo economico, quello più grave è il danno di immagine. Oggi nel mondo c’è fame di Made in Italy e non solo nell’alimentare. Purtroppo, però, i prodotti contraffatti finiscono con l’alterare il gusto delle persone che si abituano alla loro scarsa qualità, per non parlare poi di una questione rilevante come quella della sicurezza alimentare.

Succede anche nel nostro settore: la cattiva formazione finisce con l’allontanare le persone da quella buona…

Assolutamente, funziona proprio così, ne sono fermamente convinto.

I distretti produttivi 2.0 costituiscono uno degli assi portanti della struttura industriale italiana. I caratteri fondamentali di questi sistemi sono sicuramente l’elevata diffusione di piccole e medie imprese, una forte specializzazione nelle tradizionali produzioni del Made in Italy, ma anche la stretta relazione con la comunità locale di appartenenza. Quali sono le luci e quali le ombre di un “ecosistema Italia” così strutturato?

 Sono un sostenitore dello schema industriale italiano fatto di piccole e piccolissime aziende nell’alimentare. L’industria del food è la più democratica perché è veramente dappertutto. Ci sono zone d’Italia in cui le uniche realtà produttive sono quelle dell’alimentare. Per noi che produciamo DOP e IGP, il legame con il territorio è essenziale. Proprio la volontà di ampliare la nostra gamma di prodotti ci ha portati ad acquisire stabilimenti focalizzati su produzioni riconosciute all’interno di diverse denominazioni di origine. Il localismo, quindi, è parte del nostro modo di operare. I vantaggi sono evidenti: il tuo prodotto è legato al territorio, è tutelato, ci sono organismi che controllano e modalità di produzione stabilite. Poi ogni azienda aggiunge la sua qualità a quelli che sono gli standard produttivi certificati dai consorzi. L’aspetto più problematico, invece, è quello della dimensione. Sotto determinati ordini di grandezza è più difficile fare economie di scala e affrontare i mercati esteri. Teniamo conto che in tante aziende italiane non c’è una persona che si occupa dell’export. Va detto, però, che negli ultimi anni, grazie alla grandissima lungimiranza del sistema camerale italiano, molte piccole e piccolissime aziende si sono affacciate sui mercati internazionali. Le Camere di Commercio hanno una capacità unica di scovare eccellenze sul territorio. Una competenza che bisognerebbe tornare a valorizzare. Inoltre, è determinante anche l’impegno del Ministero degli Esteri, del Ministero dello Sviluppo Economico, ma soprattutto dell’ICE di questi ultimi anni. Oggi c’è una maggiore capacità dei distretti di fare emergere anche realtà medie o piccole e in questo processo il ruolo delle istituzioni è essenziale.
Trovo che il cambio di denominazione del MISE, diventato Ministero delle Imprese e del Made in Italy, sia particolarmente significativo e rappresenti già un segnale positivo, di grande attenzione verso un asset strategico per il nostro Paese. Il nuovo Ministro Adolfo Urso, che ho avuto modo di conoscere, rappresenta un’ottima scelta. Si tratta di una persona competente che conosce bene il Commercio Estero, la lotta all’Italian Sounding e alla contraffazione.

Lei è stato per sette anni Presidente delle Camere di Commercio Italiane all’Estero e ha da poco concluso il suo mandato. Quale ruolo hanno avuto queste organizzazioni nel sostegno al Made in Italy in un momento difficile come quello della pandemia?

C’è stato chiaramente un prima e un dopo il Covid. Prima della pandemia la promozione dei prodotti italiani avveniva con la partecipazione a fiere, attraverso l’organizzazione dei testing, presenziando a tutti gli eventi. Quando è scoppiato il Covid eravamo francamente preoccupati per la tenuta del sistema. Ma devo dire che le Camere di Commercio Italiane all’Estero hanno reagito e si sono inventate davvero di tutto: dai webinar fino ad arrivare al delivery, grazie ad accordi con la distribuzione. I prodotti arrivavano direttamente a casa delle persone e poi attraverso il digitale si poteva creare interazione. Penso a un’applicazione che mi ha davvero sorpreso che raccontava gli alimenti e i vini attraverso una sorta di maggiordomo virtuale. Nel momento più difficile le Camere di Commercio si sono attivate, sfruttando ogni possibilità per far sì che gli utenti potessero venire a contatto col prodotto italiano, nel pieno rispetto delle normative del periodo. Credo che i frutti di questa accelerazione sul fronte della digitalizzazione, unica conseguenza positiva della pandemia, rappresentino un’eredità destinata a restare nel tempo.

In questo scenario che ruolo dovrà avere la formazione?

Avrà un ruolo sempre più importante, vedo un grandissimo futuro. Proprio la digitalizzazione e la globalizzazione faranno da volano alla formazione. A maggior ragione con le piccole aziende che incominciano a guardare oltre i confini e che hanno la necessità di affrontare normative spesso complesse. Questo processo richiede professionisti altamente qualificati. Anche in rapporto alla digitalizzazione avremo bisogno di collaboratori sempre più preparati.

Quali sono le tre sfide che caratterizzeranno l’evoluzione della Gennaro Auricchio SpA nei prossimi anni?

La prima è il pieno inserimento della nuova generazione in azienda. La seconda è sicuramente il completamento della gamma produttiva: ci sono alcune referenze che ci farebbe piacere produrre direttamente, anziché limitarci alla commercializzazione. La terza sfida? Oggi presidiamo circa 60 Paesi, nei prossimi anni vogliamo incrementare la presenza del marchio Auricchio in alcuni mercati in cui non siamo mai entrati.

Senta, per concludere, vuole rivelare ai lettori di formaFuturi qual è il “segreto” della famiglia Auricchio?

Un segreto c’è, sicuramente la qualità, sicuramente la nostra ricetta particolare che ci tramandiamo di padre in figlio, di generazione in generazione, ma c’è anche dell’altro…nella nostra sala riunioni campeggia una scritta in rosso ripresa da un articolo uscito negli anni ’50 sul Borghese, che il giornalista Giovanni Ansaldo aveva scritto per commemorare la figura di mio nonno. Il testo recita più o meno così: il vero segreto è nella mentalità antica, ma che sempre guarda al futuro, nella costanza e nella serietà.

Grazie, un segreto di cui noi tutti dovremmo fare tesoro!

IL PERSONAGGIO
Gian Domenico Auricchio, nato a Parma nel 1957, una Laurea in Giurisprudenza, è Amministratore Delegato della Gennaro Auricchio SpA. Per sette anni, fino al 9 ottobre 2022, è stato Presidente di Assocamerestero, associazione che raggruppa le Camere di Commercio Italiane all’Estero. Oggi è Commissario Straordinario della Camera di Commercio di Cremona, di cui è già stato Presidente. È Presidente di Unioncamere Lombardia. Fra le cariche più significative ricoperte in passato la Presidenza di Federalimentare (Federazione Italiana dell’Industria Alimentare). In Confindustria, è stato al fianco di Luca Cordero di Montezemolo con la delega alla Lotta alla Contraffazione e alla Tutela dei marchi. È stato Presidente delle Fiere di Parma che detengono il marchio Cibus.